Elisabeth è lo sguardo ruvido dell’immaginario che si schianta dentro la realtà fondendosi in parole, pensieri e lettere capaci di squarciare la tutela che ognuno di noi ha per i propri sentimenti più intimi, tirandoli fuori e facendoli ruggire selvaggi.
Una storia viva, che pulsa sotto lo strato epidermico del tessuto narrativo, della fiction. La storia della storia, quella di Elisabeth, che è rimasta realmente segregata per 24 anni nel bunker del padre, violentata ripetutamente nel corpo e nei ruoli familiari, prima figlia, poi amante e madre dei figli del padre. Ma non c’è nessun tipo di stratagemma commerciale nell’ uso del fatto di cronaca, Paolo Sortino, il giovane esordiente romano, non fa speculazione di questa vicenda, non la spettacolarizza, anzi la miniaturizza. La rende piccola, ancora più soffocante, un antro in cui il respiro si spezza a ogni sforzo, a ogni forzatura verso l’esterno. L’autore rende la percezione dell’interno di una mente umana claustrofobica più di quello che realmente potrebbe essere. Però non c’è soltanto dolore, sottomissione e drenaggio delle condizioni ambientali dell’animo umano di Elisabeth, non si scava esclusivamente nei suoi abissi e nelle sue vette, ma si lascia spazio a quegli attimi di gioia che riesce ad assaporare nella quotidiana segregazione, nel respiro regolare di un figlio appena nato, nella concessione ottenuta. Stranamente, è un libro sulla felicità.
Il romanzo si apre con il ritorno a casa del padre Josef, indagato e condannato per lo stupro di due donne, in un clima di serenità da quiete dopo la tempesta nel quale le due donne stavano vivendo. Elisabeth e la madre stanno tirando avidamente aria nei polmoni da quando il genitore non c’è e tornano subito in apnea con la notizia del suo rientro tra le mura domestiche. Josef è un uomo qualsiasi, un uomo meschino nel suo qualunquismo comportamentale fatto di dolcezza affettata, di pacatezza ingorda e occhi attenti alle esigenze della figlia che guarda con rinnovato amore, a quello che lo circonda, a chi si è avvicinato a sua moglie, alle sue mani che instancabili procedono nel lavorio imposto dalla sua mente che porterà i suoi frutti capovolti, sotterranei.
L’architettura del terrore prende vita lentamente, passo dopo passo, nel retro della pagina della vita dei personaggi della casa di cui Josef è padrone assoluto. Deus ex machina per ogni situazione. Dio tiranno e benevolo. Tutto precipita all’improvviso anche se atteso. Sotto terra. Nell’oscurità dell’ignoranza altrui e nella creazione di un sub universo fatto di pareti spesse in cui Elisabeth si ritrova dopo essere stata narcotizzata. Un luogo sicuro, il paradiso perduto dell’affetto incompreso, e incomprensibile per chiunque tranne che per la figlia, di un padre che vuole amare la sua unica gioia, amarla piegandola su se stessa fino a farla diventare l’anello su cui poggiare il gioiello del suo sentimento per lei. Tutto manca di respiro da questo momento in poi, come con una sigaretta andata per traverso, il sangue e il sudore versati e fatti versare nel Bunker, microcosmo assorbente di ogni voce e pulsione, diventano macchie che sporcano le mani del lettore. Si entra nella mente della protagonista, si guarda con i suoi occhi aprire e chiudere la porta della prigionia che diventa propria. Si resta incastrati nel muro empatico della realtà, una realtà nuova, rigenerata, più reale del fatto giudiziario, la realtà che lo scrittore non inscena ma forgia. La realtà di pensieri mai ascoltati da anima viva eppure così veri.
Gli anni trascorrono sotto le mani sudate del lettore, il principio del dolore della giovane diventa l’ossessione per una ribellione che dura poco, si trasmuta in comprensione, in ricerca, che il padre accoglie come una dovuta sottomissione offerta come atto d’amore. Trascorre il tempo senza sapere quanto e quale, perché nel Bunker il mondo è asettico, il cosmo manca di stelle che orientino e il sole è morto sul pavimento tra umori e lacrime. Nell’arco cronologico narrativo ci si scontra con tutto, le gambe tremano e lo stomaco si chiude, si sente il dolore del primo parto e dei successivi, si vive il disfacimento fisico di una ex giovane che diventa una donna a metà, fatta di esperienze empiriche e ataviche, restando confusi dalla convulsione di sentimenti generata nei capitoli. Mai odio per Josef, mai troppa rabbia per Elisabeth, mai troppo sconcerto. Non si sa cosa pensare della vicenda, non c’è tempo per farlo perché questa è fatta per essere vissuta attraverso le parole che sembrano essere riportate dall’autore. E in tutto questo scorrere emozionale si fa largo la felicità, la ricerca della gioia, sempre più prepotentemente anche nella tragedia della calcinazione di un figlio morto e nella doppia visione del padre-padre e della figlia-madre-compagna. Una visione così distante eppure terribilmente simile nella tenerezza con cui i due la vivono. La protagonista cerca solo la gioia della vita, cerca la vita nella sua purezza e non perde mai la lucidità di un Io che sa quando nascondersi nell’ombra per sopravvivere fino a tornare alla luce. Il padre vuole uno specchio in cui riflettersi e riflettere la propria vita al meglio, senza sapere che la lastra che lucida ogni giorno potrebbe soltanto distorcere le sue percezioni portandolo all’avvizzimento della sua stessa natura.
Elisabeth è un romanzo mai nato, è la terribile storia mai raccontata dell’amore, della vita, è un mondo che calpestiamo ogni giorno con la nostra normalità ma soprattutto è stato partorito in un puro atto di amore verso la scrittura.

“Elisabeth” di Paolo Sortino

edito da Einaudi

pp. 201  –  euro 19.50

Recensione di Alex Pietrogiacomi