il lungo addio raymond chandler feltrinelli“Non vidi mai più nessuno di loro… eccettuati i poliziotti. Il sistema per dir loro addio non è stato ancora inventato”.

Così si conclude “Il lungo addio”, a mio parere l’ultimo vero romanzo che vede protagonista l’investigatore privato Philip Marlowe (il successivo “Playback” è infatti l’adattamento di una sceneggiatura), il quale conclude la saga cominciata con “Il grande sonno”. E il congedo non è certo dei più allegri. Non un barlume di luce pare brillare tra la notte perenne che sembra avvolgere la California chandleriana. Il nostro eroe si ritrova ad avere a che fare con un esercito di marionette, le quali si muovono meccanicamente, imitando ciò che un tempo erano conosciute come relazioni interpersonali. Come al solito, Marlowe si mette nei guai da solo, per colpa della sua adorbaile testardaggine che lo porta a credere ancora nell’esistenza dell’innocenza, in una sorta di dogma della purezza che ignora l’evidenza della realtà. L’amicizia con Terry Lennox nasce per caso, dopo un incontro casuale fuori da un locale di lusso di Los Angeles. Cosa diavolo ci faccia Marlowe lì fuori, non ci è dato di sapere: probabilmente è quell’attrazione verso il male che, se da una parte è diretta conseguenza del lavoraccio che si è scelto, dall’altra è anche la sua condanna. O forse, più semplicemente, il male è dappertutto, e il nostro non fa che incontrarlo per una necessità meccanica. Sta di fatto che Lennox capita alle 5 del mattino a casa di Marlowe, con una pistola e una richiesta: portarlo a Tijuana. Ovviamente, è nei guai fino al collo. Il privato sente puzza di guai, ma si può rifiutare un favore ad un amico? La sua dannata etica glielo impedisce. Sale in macchina e fa quello che Terry gli chiede. Al suo ritorno, gli sbirri lo stanno già aspettando, lo portano dentro e lo tempestano di domande, perchè Lennox è ricercato per omicidio. Dopo qualche giorno, la svolta: il cadavere dell’amico viene ritrovato, con tanto di confessione. Ma la storia è troppo perfetta, viene messa a tacere troppo in fretta, e Marlowe, da inguaribile sentimentale, si mette in testa che il suo amico sia innocente, che l’abbiano incastrato. Da quel momento comincia il lungo addio, dall’amico defunto così come da tutte le (poche) certezze che il nostro mantiene nei confronti del mondo sporco e corrotto per il quale prova disgusto ma da cui, al tempo stesso, è attratto come una falena dal fuoco. A questo punto, bruciarsi diventa un atto rituale.

Nel descrivere l’affannosa ricerca della verità da parte del protagonista, Chandler da vita al suo capolavoro: una trama densa, arricchita da personaggi memorabili e numerosi colpi di scena (da brividi quello finale), fa da sfondo ai dialoghi asciutti, il cui stile ricorda quello di Hemingway. I diversi fili narrativi sono sapientemente intrecciati dallo scrittore, in questa opera che è una sorta di poema epico della negatività. L’amicizia virile è infatti il tema centrale, arcolaio sul quale si dipana la matassa della trama, parte delle invariabili del poema epico fin dai tempi dell’Iliade, fin dalla storia di Patroclo ed Achille. Questo è l’appiglio al quale Marlowe si rivolge, dopo essere stato profondamente deluso dalle esperienze narrate nei libri antecedenti. Disilluso come non mai e conscio del nulla che lo circonda, egli rifiuta di credere che anche quest’ultimo e fondamentale valore sia venuto meno. Per questo mette a repentaglio, come mai aveva fatto prima, la sua reputazione, il suo futuro, la sua indispensabile licenza, ultimo contatto con un mondo che non riconosce più come proprio. Il destino di questo tentativo estremo è scritto nel modo stesso in cui viene operato, e alla fine l’investigatore si ritroverà di nuovo, e stavolta definitivamente, solo. Tuttavia, ciò non significa che l’intenzione che lo ha mosso non sia lodevole, che la sua caduta non sia commovente.

“Il lungo addio” di Raymond Chandler

edito da Feltrinelli

pp. 313  –  euro 8

Recensione di Riccardo Motti