Chi ha letto lo strabiliante esordio letterario di JSF (“Ogni cosa è illuminata”, Guanda 2002) e lo ha seguito nel commuovente “Molto forte, incredibilmente vicino” (Guanda, 2005) saprà di certo che parlare di Safran Foer significa confrontarsi con una delle più brillanti ed eclettiche giovani promesse (mantenute) della scena letteraria statunitense.
Ma certo pochi si sarebbero aspettati un libro di questo genere, nel quale l’autore – lasciate le vesti di romanziere – si confronta con un tema non facile che può riassumersi nel sottotitolo: perché mangiamo animali?
L’analisi di Foer (vegetariano prima per caso e ora per convinzione) è il risultato di tre anni di indagini, ricerche, viaggi e interviste alla scoperta di quello che c’è dietro le bistecche e i polli che siamo abituati a consumare ogni giorno.
Tutti più o meno immaginiamo che la moderna industria zootecnica non è certo caratterizzata dall’amorevole cura per gli animali e ciascuno di noi sa bene (sebbene questa informazione venga rimossa con incredibile facilità) che le bestie che finiscono nel nostro piatto difficilmente hanno fatto una bella vita.
Ma quello che emerge da questo libro – peraltro documentatissimo, sebbene è giusto sottolineare che l’analisi riguarda gli Stati Uniti – è qualcosa che davvero non può lasciare indifferenti. Numeri e dati inconfutabili sono infatti lì a dirci che l’allevamento intensivo degli animali – una tecnica nata per garantire sempre più carne a sempre minor prezzo e utilizzata per il 99% della fauna che finisce sulle nostre tavole – è in sostanza una “guerra” senza esclusione di colpi.
Le vittime non sono solo gli animali (manipolati geneticamente, imbottiti di farmaci, marchiati, mutilati e uccisi dopo poche settimane di qualcosa che si fatica a definire vita) ma noi stessi. Che, senza saperlo (o, peggio, fingendo di non saperlo) foraggiamo con il nostro consumo un’industria che lentamente ci sta uccidendo. Producendo il più alto tasso di inquinamento del pianeta per una singola attività (“le sole deiezioni di polli, suini e bovini hanno già inquinato più di 55mila chilometri quadrati di fiumi in 22 Stati”); minacciando gravemente la biodiversità (“4 milioni e mezzo di animali marini uccisi come prede accessorie ogni anno”); nutrendoci con prodotti sempre più contaminati; mettendo in serio pericolo la nostra salute (“i bambini cresciuti nel comprensorio di una porcilaia industriale hanno tassi di asma superiori del 50%”; “il 95% dei polli in vendita sul mercato risulta contaminata da Escherica Coli, l’8% da Salmonella, dal 70 al 90% dal Campylobacter”).
Soprattutto, il libro ha il pregio di provare a risvegliare in noi un’etica dell’alimentazione che pensavamo perduta. Un esempio? Basta chiedersi non tanto “perché mangiamo gli animali”, quanto piuttosto perché solo certi animali? Qual è il criterio di selezione? Inutile nasconderselo: nessuno. Il che, in un certo senso, aggiunge la beffa al danno.
L’autore non cerca né propone ricette infallibili (sebbene la sua scelta di alimentazione vegetariana acquisti inevitabilmente il valore di una strada possibile) e non manca di presentare alcuni modelli di allevamento alternativi, che cercano e in parte, trovano un compromesso accettabile in direzione di un consumo di carne più consapevole.
Resta però il sasso lanciato nello stagno. Un sasso di cui, probabilmente, c’era molto bisogno.
“Se niente importa” di Jonathan Safran Foer
edito da Guanda
pp. 363 – euro 12
Recensione di Giuseppe De Marco