“Atlante occidentale” di Daniele Del Giudice (Einaudi)
Un fallimento, uno scontro tra aerei, dà inizio all’amicizia tra Pietro Brahe, ricercatore impegnato a studiare gli effetti dell’acceleratore di particelle nei laboratori del CERN, e Ira Epstein, enigmatico scrittore alle soglie del premio Nobel, ormai stancatosi della propria attività intellettuale e alla ricerca di un superamento della forma apparente. I due non potrebbero essere più diversi, scienza e letteratura, testa e cuore, eppure il rapporto che scaturirà da quel banale incidente tra aeroplani cambierà la vita di entrambi.
Pubblicato nel 1985, ma quanto mai attuale ancor oggi, “Atlante occidentale” rappresenta una punto di rottura con il resto del panorama letterario, per stile e contenuti, presentando un argomento inedito e altamente tecnico, sconosciuto alle pagine gonfie d’umanesimo e storicismo della letteratura italiana.
Fisica e letteratura, metafisica e metaletteratura. I fili si intrecciano in una trama fitta di rimandi al volo, passione in seguito sviscerata da Del Giudice in “Staccando l’ombra da terra”, “Mania” e negli articoli di “In questa luce”, e alla scrittura. Un tema, quello della riflessione sullo scrivere, che l’autore romano aveva già affrontato nel libro d’esordio, “Lo stadio di Wimbledon” (dove l’impossibilità, la resa, di fronte al raccontare diventa materia di un libro, in un perpetuo paradosso circolare), qui superato grazie a un’impostazione più narrativa e immediata, ma non per questo più semplice – complice anche la grande quantità di discorsi tecnici. Se, infatti, “Lo stadio di Wimbledon” peccava di un’inconsistenza che allo stesso tempo era il suo punto di forza, “Atlante occidentale” tratteggia con mano ferma un arco narrativo compiuto, dove è possibile scorgere uno sviluppo, una crescita, un’appagante senso di compiutezza interna al libro.
Immutato lo stile, etereo e luminoso, raffinato ma non stucchevole, povero di aggettivi ma ricco per varietà di strutture e snodi frasali che donano guizzo e agilità alla prosa (non è un caso che il libro sia lungo poco più di 170 pagine). Alternando le riflessioni sull’argomento a passaggi più leggeri, Del Giudice mostra una spiccata abilità nel rendere incalzante anche una semplice discussione su quanto spazio spetti a uno scienziato, ospite dei laboratori.
Su tutto, la precisione sembra eleggersi ad assioma principale: le pagine sono fitte di lemmi tecnici, di linguaggi settoriali che restituiscono, da una parte, un’immediata veridicità, e dall’altra un senso di specificità ed esattezza. Impara la lezione di Calvino, padre di una scrittura tersa e cristallina per senso e scopo, Del Giudice si concede però anche qualche esperimento – alla maniera dei personaggi che popolano l’opera, impegnati a scoprire una nuova realtà scientifica – nel campo della lingua: spesso le frasi presentando più tempi verbali, un passato prossimo e un passato remoto, un presente e un passato insieme, creando un effetto vibrato, di continuo passaggio diaframmatico da una realtà all’altra, proprio come le particelle che si muovono nell’acceleratore di Ginevra.
Si crea quindi una forte compattezza, un’unione di intenti tra stile e contenuto, entrambi impegnati a raccontare la nascita di nuovi oggetti conseguente alla scoperta delle particelle sub-atomiche. Nuovi oggetti, letterari e fisici, che andranno a formare nuove mappe, nuovi atlanti, su cui segnare il percorso dell’uomo verso l’ignoto.
Atlante occidentale non vuole tuttavia essere un apripista, non vuole imporre o costringere modelli da seguire, perché, come ricorda Epstein, la cosa più importante di un’esperienza non è scriverne, raccontarla, spiegarla. L’importante è provarne il sentimento.
edito da Einaudi
pp. 170 – euro 11
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