“Non mi mancheranno”, ha detto Guccini delle sue canzoni in occasione della presentazione del suo ventiquattresimo disco “L’ultima Thule”. Un album che dovrebbe segnare, appunto, il definitivo abbandono delle scene da parte del cantautore modenese.
Ma si tratta solo di un cambio di prospettiva. Perché Guccini, che per sua stessa ammissione è in crisi di ispirazione canora già da tempo, non se ne starà certo seduto in panchina con le mani in mano. Semplicemente, dismessi i panni del cantautore vestirà quelli dello scrittore, così realizzando peraltro il suo vero sogno di bambino (“Volevo fare lo scrittore io, mica il cantante”, ha dichiarato lui stesso in diverse occasioni).
Di libri poi, Guccini ne ha già scritti diversi, cominciando già nel lontano 1989 con “Cròniche Epàfaniche” (da poco ristampato per Mondadori). Che poi siano o meno all’altezza dei suoi componimenti musicali è questione dibattuta che si può lasciare al gusto soggettivo di ciascuno.
Quel che è certo è che, nei dischi come nei libri, prevale spesso la vena malinconica e nostalgica, appena alleggerita qua e là da guizzi ironici.
Lo si nota soprattutto in questo “Dizionario delle cose perdute” che, sin dal titolo, non solo non si preoccupa di apparire terribilmente nostalgico ma fa della nostalgia il suo filo conduttore.
E mentre nei dischi una traccia particolarmente malinconica poteva essere compensata da un’altra più ironica o beffarda, qui il registro è univocamente impiantato nel solco del rimpianto per il passato.
L’approccio da “bei tempi andati” non è solo accennato ma si fa insomma scoperta strategia narrativa.
È un’Italia in bianco e nero, da altri mille volte e in mille modi descritta e omaggiata, resa qui non senza grazia e afflato evocativo. Ma è un’Italia che probabilmente non è mai esistita, se non nel ricordo di chi, ormai in là con gli anni, trasferisce sul mondo una genuinità che è invece puramente soggettiva e anagrafica.
Il problema però è che se non si ha almeno una cosa da rimpiangere del passato (sia ieri o cent’anni fa), difficilmente si riuscirà ad entrare in sintonia con questo testo.
Per dirla tutta, se non si pensa davvero che prima (Prima) tutto era più facile e bello e sano, la lettura dei ricordi gucciniani si può risolvere in una noia mortale.
E allora il pensiero dei mutandoni di lana che l’artista era obbligato ad indossare da piccolo suscitano al massimo un sorriso di cortesia, doveroso omaggio ad un maestro che con i suoi versi si è guadagnato un credito imperituro. E insieme malcelata speranza che la chitarra appesa al chiodo possa prima o poi tornare tra le sue braccia.
edito da Mondadori
pp. 140 – euro 10