Generalmente considerato come un grande classico del secolo moderno, osannato da critica e lettori, “Fahrenheit 451″ si presenta, a mio avviso, come un libro noioso, lento e mal scritto.
Il messaggio che lascia è vacuo, banale, moralistico e pone l’autore in una luce vagamente patetica.
Ciò che vorrebbe veicolare è l’importanza della cultura per il genere umano e la sua presenza innata nella nostra vita, indicandoci che la voglia di conoscenza non necessita d’essere insegnata ma è propria dell’essere umano. In realtà, sembra di più che Bradbury abbia realizzato uno spaurito “Manifesto della letteratura” in difesa dai presunti attacchi dei nuovi mezzi di comunicazione, in particolare la televisione, presentata come una presenza invadente e lobotomizzante per tutto il romanzo.
Le prime centoventi pagine sono probabilmente la parte peggiore, dopo il finale che non posso raccontare per non rovinarlo e mi soffermo quindi su questa prima parte.
I personaggi sono piatti, senza il minimo spessore psicologico, soprattutto il protagonista sembra essere privo di carattere, di personalità, di ideali, infatti è influenzabile come una banderuola al vento.
La ragazza che incontra si presenta come un deus ex machina nel più letterale e peggiore dei significati, ovvero come un personaggio platealmente calato nella vicenda senza nemmeno un tentativo di motivazione logica, semplicemente appare, fa quello che deve fare e scompare dalla vicenda.
I dialoghi sono terrificanti, sembrano un maldestro patchwork di monologhi preparati che i personaggi si limitano a snoccialarsi vicendevolmente in faccia, senza nemmeno la più pallida resa di reali reazioni umane.
Certo, si potrebbe obiettare che questo sia precisamente l’intento dell’autore, cioè di rendere i personaggi come vuoti e preparati solo a ripetere dei canovacci personali ma la cosa sembra poco credibile e comunque mal gestita.
Non c’è spazio per l’ambiguità di personaggi o situazioni perchè il minimo dubbio sull’identificazione di un qualunque personaggio viene immediatemente fugato dallo stesso che nel giro di tre righe di dialogo praticamente dice a chiare lettere “Io sono cattivo” o “Io sono buono” a differenza dei casi.
Insomma, una delusione profonda, accentuata da un finale sbrigativo e insipido che lascia del libro un ricordo pessimo ma che data la banalità sbiadirà presto, fortunatamente.
Della lettura resterà soltanto il rimpianto di un’idea originale rovinata da un’esecuzione pessima. Chiaramente sconsigliato.
edito da Mondadori
pp. 210 – euro 9