Uno dei classici della letteratura statunitense, capace ancora oggi di parlare ai lettori. Perché? Perché la rabbia del sedicenne Holden Caufield, cacciato dall’ennesima scuola negli Stati Uniti del secondo dopo guerra e tutt’altro che entusiasta all’idea di tornare a casa dei genitori prima dell’arrivo della lettera ufficiale di espulsione, una rabbia che non si capisce bene da cosa sia motivata, è la rabbia di ognuno di noi. E lo è proprio perché non ha un obiettivo preciso, una causa scatenante precisa. Così nelle avventure metropolitane di questo ragazzo con diversi capelli bianchi, che cerca di spacciarsi per un maggiorenne e farsi servire da bere nei locali, ma spesso finisce a sorseggiare Coca Cola, questo ragazzo che infarcisce i suoi discorsi di “e tutto quanto”, “e quel che segue”, “e compagnia bella”, che non se la sente di rotolarsi nel letto con una giovane prostituta e compiange i suoi ex compagni di scuola, così bravi a fregare una ragazza, in queste avventure che si susseguono da quando Holden lascia Pencey, nelle “cose da matti che mi sono capitate verso Natale, prima di ridurmi così a terra da dovermene venire qui a grattarmi la pancia”, per dirla come Holden nell’attacco del romanzo, ognuno può vedere qualcosa di se stesso.
Il protagonista di questo libro – che per i lettori italiani si identifica proprio con il suo nome, data l’impossibilità di tradurre un’espressione profondamente legata al mondo americano come “the catcher in the rye” (il prenditore nella segale?) – è per più di una ragione un outsider. È un ragazzo che non si riconosce nei comportamenti dei coetanei, che ha in sé una certa maturità più vicina alla vecchiaia che alla giovinezza che lo portano a sentirsi diverso dagli altri, a deriderli e criticarne gli atteggiamenti. Al contempo, Holden ha tutte le caratteristiche del ragazzino, e ci sembra di vederlo, in giro per una New York gelida e natalizia, con la sua posa da adulto e tutte le fissazioni e gli atteggiamenti del bambino. Un ragazzo cresciuto nella bambagia, che si può permettere di perdere il tempo in giro, perché di fondo non ha problemi di sopravvivenza. Holden, però, ha pensieri intricati e paranoie più o meno comprensibili; ha un giudizio sempre pronto su tutto – e per questo, sono molti quelli che, leggendo delle sua storia, hanno provato un’immediata antipatia per lui. Holden ha anche un che del poeta, nel raccontarci la sua storia, ed è per questo che si finisce comunque per affezionarsi a lui, “alla vecchia Phoebe”, e a tutti i dilemmi con cui il ragazzo si arrovella nel corso della storia – telefonare o non telefonare a Jane per sapere se è già tornata per le vacanze di Natale?
Alla fine si rimane con un dubbio esistenziale (e irrisolvibile come sono solo le domande che ci poniamo una volta giunti alla fine di un libro): cosa ne sarà stato di Holden Caufield, dopo? Avrà iniziato tutto daccapo in un’altra scuola? Avrà realizzato qualcosa nella sua vita? O sarà davvero partito per il profondo sud (o nord), per vivere lontano da tutti come lo abbiamo sentito fantasticare qualche volta? “Il giovane Holden”, allora, è davvero uno di quei libri che lasciano senza fiato, come argomenta il protagonista in un celebre passaggio del testo, perché “quando lo hai finito di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”.
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“Il giovane Holden” di Jerome David Salinger
edito da Einaudi
pp. 248 – euro 12
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Recensione di Roberta Turillazzi
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