“L’idea modernista che tutto è possibile, l’idea postmoderna che ormai tutto è già stato detto, l’idea post-postmoderna che, dal momento che tutto è già stato detto, tutto è permesso” Rick Moody
Molto spesso i romanzi definiti postmoderni – qualunque cosa significhi per voi “postmoderno” – tendono a prendere derive pericolose, perdendosi in ardite architetture stilistiche e ripiegandosi talmente su sé stessi da divenire quasi illeggibili. “Il tempo è un bastardo”, pur presentando molto dei caratteri tipici del romanzo post-moderno – una complessa struttura a incastro, la contaminazione tra diversi stili di scrittura, un uso, peraltro sapiente, del flashback e del flashforward – rifugge da questi difetti, risultando uno di quei rari romanzi tanto intellettualmente stimolanti quanto emotivamente coinvolgenti. La struttura del romanzo è innegabilmente molto elaborata: 13 capitoli per 13 racconti che hanno come trait d’union le voci narranti, tutte unite a delineare un affresco che si snoda dalla San Francisco degli anni ’70 fino a una New York futura, dove all’interno di ogni episodio si intravedono sullo sfondo le prossime voci narranti o i personaggi che abbiamo già incontrato (e una volta capito il gioco l’inizio di ogni capitolo si apre con la curiosità di sapere a chi sarà questa volta il narratore, di solito un personaggio in precedenza sullo sfondo, che credevamo fosse lì solo di contorno). Come detto però “Il tempo è un bastardo” non è solo una costruzione intellettuale: tutti i racconti, qualunque sia l’espediente narrativo scelto, riescono a coinvolgere un ampia fascia di emozioni, mostrandoci uno squarcio della vita dell’io narrante; i racconti sono tipiche short-stories americane contemporanee – per intenderci, il tipo di racconti che potreste trovare pubblicati sul New Yorker, stilisticamente perfetti e lievemente venati di malinconia – ma con innumerevoli variazioni sul tema, dal semplice cambio di punto di vista, passando per il reportage nello stile del compianto David Foster Wallace, fino a un capitolo scritto interamente in slides di power point, la più gelida forma di narrazione che si possa immaginare, ma che grazie al talento della Egan finisce per assumere contorni elegiaci per un gioco di contrasto. I racconti sono autoconclusivi sebbene il modo in cui si intrecciano tra loro, dando come risultato più della loro somma, rende il volume non una raccolta di racconti ma un vero e proprio romanzo. “Il tempo è un bastardo” ci porta anche a interrogarci sul romanzo in generale: se alla più volte preconizzata “morte del romanzo” ormai non crede ormai più nessuno, l’impressione che si ha leggendo il lavoro di Jennifer Egan è quella di un’apertura a una sorta di “narrativa totale”, intesa come un superamento dei confini tra diversi modelli di narrazione, in un’ibridazione continua in cui si attinge da Proust e De Lillo, e allo stesso tempo (e con la stessa dignità) da Lost e Quentin Tarantino; e in quest’ottica è significativo che il romanzo sia stato subito opzionato dalla HBO – network statunitense che si è caratterizzato negli ultimi anni per la qualità delle sue serie tv, da Six Feet Under a Game of Thrones – per trarne una serie televisiva. La sensazione è che altrettanto facilmente se ne sarebbe potuto trarre un film o una piecè teatrale.
Se si deve trovare un difetto a questo romanzo – e si potrebbe tranquillamente farne a meno – paradossalmente è forse l’essere così perfetto, cesellato così accuratamente che, pur emotivamente coinvolgente, appare in qualche modo distante, come se per scrivere un romanzo di questo genere si dovesse pagare una sorta di dazio alla spontaneità. Troppo perfetto quindi. Ma in letteratura si può dire che esista la perfezione? e se si, è un valore da ricercare?
“Il tempo è un bastardo” di Jennifer Egan
titolo originale: A visit from the Goon Squad
edito da Minimum Fax
pp. 350 – euro 18