Uno dei gesti più belli che un padre solitamente compie, quando tiene in braccio il figlio appena nato, è quello di sollevarlo verso il cielo, le braccia ben tese atte a trasmettergli sicurezza e protezione. Un’immagine che evoca stabilità e delicatezza, forza e fragilità allo stesso tempo, rappresentazione del rapporto padre-figlio, uno dei temi del bellissimo romanzo Le cose fondamentali di Tiziano Scarpa, Premio Strega 2009 con Stabat Mater.
Il romanzo nasce come diario: Leonardo, il protagonista, ripercorre alcune esperienze fondamentali della sua vita – il rapporto con i genitori, l’incontro con la donna amata, l’approccio al mondo del lavoro – narrandole con il desiderio di tramandarle al figlio. In questo quaderno, il piccolo Mario non troverà semplici pensieri o aneddoti, riflessioni su persone o descrizioni di paesaggi. Egli comprenderà l’essenza stessa delle cose; vedrà la realtà così come suo padre l’ha percepita nel momento stesso in cui è stato “iniziato” alla paternità. La nascita del piccolo sembra infatti coincidere con la rinascita del protagonista; Leonardo si pone innanzi al mondo come fosse lui stesso un neonato,“una creatura dai grandi occhi spalancati”, osservatore della realtà senza “alcuna barriera di pensieri”, spoglia di finzioni, preconcetti o artifici atti ad alterarla. Tale genesi può essere interpretata come possibilità di affacciarsi nuovamente alle cose essenziali del mondo e della vita stessa, volontà di comprendere ed assegnare l’esatto valore all’amicizia, all’amore, alla malattia, alla morte.
“Cose fondamentali” che vengono denudate, così come, in un capitolo, il protagonista denuda platealmente se stesso, si spoglia dello status di adulto per calarsi nella condizione del neonato, lasciando agire i propri istinti e lasciandosi pervadere dallo stupore primordiale di quanto lo circonda. E la meraviglia, l’intensità, il lirismo affascinano il lettore, coinvolgendolo in un’opera forse più drammaturgica che narrativa. Credo che Le cose fondamentali debba essere “letto” come straordinaria opera letteraria ricca di simbologie, strutturata su frequenti dualità che vengono scardinate, sovvertite. E allo stesso tempo, essere “visto” come eccellente capolavoro teatrale ambientato in una Venezia che si rivela essere un’entità affascinante, viva.
Significativo, in tal senso, è il momento in cui il protagonista si trova in riva al mare, sulla spiaggia invernale e solitaria del Lido di Venezia, “un’isola molto lunga e molto stretta, un grissino”: la distesa d’acqua diviene essere animato, irrompe in quanto scenario perfetto del meditato suicidio del protagonista, ritorno all’ambiente primordiale, “il mare entrerà dentro di me, ne basterà poco, ce ne sarà così tanto, tutt’intorno, non sarà molto quello che pretenderò per me”. L’io narrante descrive la sua morte, la vive attraverso una scrittura minuziosa, ricercata, in tensione; l’io, posto di fronte alla diagnosi della terribile malattia del neonato e alla scoperta di non esserne il padre biologico, assiste al crollo di ogni sua certezza, evento che collima con la crisi della sintassi stessa.
Si assiste così alla presa di potere della scrittura e delle parole che tornano ad essere suono, successione di lettere. Esse incombono, assalgono e travolgono il protagonista e il lettore, l’uno intento a dare una logica agli eventi, l’altro proteso verso una risoluzione. “Le parole non mentivano, si sono impossessate di me, si sono sostituite a quello che sono, a quello che pensavo di essere, sono solo loro che vivono dentro di me, io non esisto, non ci sono”.
Il finale del romanzo è una sorta di quiete dopo la tempesta; una presa di coscienza responsabile, risolutiva ed eticamente apprezzata. Un sipario che si chiude con le parole più belle: “Questo è. È stato così che sono diventato tuo padre, ma non te lo racconterò mai”.
pubblicato da Einaudi
pp. 150 – euro 18