“Ogni mattina a Jenin” è il romanzo che ha dato risposta a tante domande che non ero ancora riuscita a formulare.
Com’è la vita quotidiana in un campo profughi? Che cicatrici porta chi vi ha vissuto l’infanzia? Come vive nel mondo il popolo palestinese? In poche parole: come vivono e cosa provano, nella quotidianità, i palestinesi.
Susan Abulhawa, nata nel 1970 da profughi palestinesi in fuga dopo la Guerra dei Sei Giorni, trascorre l’infanzia tra Kuwait, Giordania e un orfanotrofio di Gerusalemme Est . Infine si è trasferita negli Stati Uniti dove scrive il suo primo romanzo.
“Ogni mattina a Jenin”, inizialmente pubblicato con il titolo “Nel segno di David”, racconta – attraverso la storia della famiglia Abuleja, – sessant’anni di storia del suo popolo, dal 1941 al 2002, e il conflitto israelo-palestinese.
Yaheya e Bassima, Hassan e Darwish, Dalia, Yussef e Isma’il, Fatima, Amal e Majid, Falastin e Sara. Generazioni che si avvicendano nel subire la stessa sorte, in maniera sempre più drammatica. Ma nel dramma, visto da occhi palestinesi, non mancano personaggi ebrei di alta levatura morale: nella lotta tra le due parti politiche l’Uomo può sempre decidere di non rinunciare alla parte migliore di sé.
Restano un popolo che è stato sradicato dalla sua terra e un popolo che cerca una terra dove ritrovare la proprie radici.
E’ proprio a partire dal 1941 che intere popolazioni inizieranno a subire sconvolgimenti e che Bassima dovrà rinunciare a coltivare la sue rose. E Dalia, sua nuora, beduina ribelle, dovrà rinunciare alla sua casa e al suo figlio più piccolo, Isma’il, di quattro anni, rapito per essere adottato da una famiglia israeliana.
Attraverso i decenni la tragedia si ripete, più e più volte, sempre uguale a se stessa eppure sempre drammaticamente diversa negli scenari, se possibile sempre più tragici. Resta invariato il dolore, che si rinnova continuamente.
Ma c’è anche spazio per attimi di serenità: i bigliettini d’amore tra ragazzi, l’amicizia, una bambola ritrovata, il rito del preparare il cibo, il gioco del backgammon.
“Ogni mattina a Jenin” è, come tutte le saghe familiari, anche un romanzo d’amore. L’amore in ogni sua forma: amicizia, passione, amore per i figli, per la propria terra, per le proprie tradizioni. Amore che tiene legata, attraverso gli anni e i continenti, una famiglia ormai distrutta, risalendo fino a Isma’il e riallacciando il dialogo con lui.
Si piange e si ride, in questo romanzo. Sopratutto ci si interroga, su come questo possa accadere realmente ad esseri umani come noi, che provano i nostri stessi umanissimi sentimenti: amano i fiori, servire il pranzo agli ospiti, amano i figli, stare abbracciati al padre la mattina a veder sorgere il sole, giocare con le bambole, pettinarsi i capelli.
Ci si chiede come possano due bambine resistere allo strazio di passare giorni sepolte sotto le macerie abbracciando la cuginetta morta senza impazzire, ci si chiede come si possa ogni giorno vivere sapendo che qualcuno dei nostri cari non tornerà.
Abulhawa risponde magistralmente a queste nostre domande facendoci quasi provare i sentimenti di chi si trova a vivere queste drammatiche situazioni, facendoci soffrire ma anche sorridere e persino ridere. Amare, sperare…
Solo una domanda resta senza risposta: perché?
Un romanzo che tocca ogni corda del nostro animo, che ci fa pensare, che ci coinvolge e non può lasciarci indifferenti. Un romanzo che merita di essere letto.
“Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa
edito da Feltrinelli
pp. 320 – euro 9.50