L’irlandese Maeve Brennan si trasferì, giovanissima, in America al seguito del padre. Molti anni dopo lei rimase a New York mentre la famiglia rimpatriava. Donna bellissima e inquieta, si sposò ma era un matrimonio destinato al fallimento; visse, col marito, in una elegante zona vicina al fiume Hudson, circa cinquanta chilometri a nord di New York. Per lungo tempo scrisse per la rubrica “Talk of the town”; gli ultimi anni della sua vita li trascorse allo sbando, senza una vera e propria dimora, ma per lo più nei bagni per signore della sede del giornale per cui lavorava.
La raccolta “Racconti di New York” sembra seguire, quasi schematicamente, i diversi periodi che contraddistinsero la vita dell’autrice.
La prima sezione del libro, intitolata “Una splendida vista sul fiume”, narra della cura maniacale in genere dedicata alla casa, simbolo del benessere e della felicità raggiunta: un insieme di racconti sulla vita che si svolge all’interno delle trentanove ville costruite vicino il fiume Hudson, tutte molto simili, che ospitano donne altrettanto simili, ed in costante rivalità fra di loro. La casa coincide con l’ identità sociale, tanto da non riuscire quasi a separarsi da essa, neppure per una vacanza. In queste ricche abitazioni è fatto l’obbligo di organizzare ricevimenti e feste che, almeno nelle intenzioni, dovrebbero rimanere nella storia. L’affermazione di sè si ottiene anche grazie alla costruzione di una pedana a ridosso del fiume, o allo svelamento (a picconate) di un camino murato, all’interno di una vecchia cucina. Addirittura vecchi scaldini, libri contabili, poltrone sfondate, se posti al centro dell’attenzione generale, possono modificare sensibilmente il corso degli eventi.
A parere di chi scrive, questa, fra le due, è di gran lunga la parte migliore della raccolta.
Nella seconda parte del libro, “Voci dalla città”, la rotta si inverte: non più salotti curati e cucine lucidate a specchio dalle cameriere irlandesi, bensì luoghi del tutto anonimi, come le hall degli alberghi, ad esempio, nelle quali trionfa la fredda educazione degli addetti alla reception. Oppure maleodoranti ascensori o cabine pubbliche.
In ogni caso ci si sente soli, inadeguati, senza via d’uscita; neppure un variopinto corteo di protesta sortisce l’effetto desiderato. Gli appartamenti sono dati in prestito, nulla appartiene ad alcuno. Si prova la sensazione di attraversare sì il mondo, senza però lasciare alcun segno del proprio passaggio.
Nei migliori ristoranti di New York, spesso uguali fra di loro, tanto da confondere gli avventori, i pasti si consumano in tutta fretta, leggendo svogliatamente un giornale.
Le donne che Maeve descrive sono perennemente a dieta, attente all’aspetto ed al pettegolezzo. Mentre gli uomini? Quasi tutte figure marginali: distratti e francamente stanchi di avere a che fare con mogli o compagne nevrotiche.
Anche se Brennan non citasse l’Hotel Algonquin, il pensiero correrebbe comunque a Dorothy Parker. Qualcosa, nello stile, accomuna le due scrittrici: conoscono sia l’amarezza che l’ironia.
E, soprattutto, entrambe scrivono davvero bene.
“Racconti di New York” di Maeve Brennan
edito da Bur Rizzoli
pp. 184 – euro 9,90