A vent’anni dalla morte rumoreggiano ancora i borborigmi del «Mangagnifico»! Dal suo intestino ormai quintessenziale, pervengono a tratti piccoli gorgogliamenti, borbottii, e poi «quei rutti, quelle loffe», quei sommovimenti «di un’anima colliquante» da cui sgorga una vera inondazione – di parole (ma non s’inorridisca, prego!, si citano qui le epistole dell’esimio scrittore all’illustre maestro Anceschi: I borborigmi di un’anima, Torino, Aragno, 2010).
Ché qui parliamo di un libro, ovviamente. “Ti ucciderò, mia capitale”, raccolta di racconti postuma dello scrittore Giorgio Manganelli, ingorgo difficile a districare, come il caotico archivio su cui da anni si applica Salvatore Silvano Nigro. Nella postfazione dal titolo Il laboratorio di Giorgio Manganelli, Nigro esalta il valore di questi scritti per lo più inediti, vera “palestra stilistica” dello scrittore (e la silloge copre un periodo assai lungo, dal 1940 al 1982 – mentre i libri del “Manga” uscirono tra il 1964 e… oggi); ma i racconti di “Ti ucciderò, mia capitale” sono molto più di semplici esercizi di stile.
Ok, non lo nascondo: molti restano davvero ostici. Pochi lettori avranno il sufficiente gusto dell’autolesionismo che porta a divorare con sommo piacere le perorazioni de L’archimandrita dei demonofili al suo gregge, o le pseudotanatologiche riflessioni (già l’aggettivo spaventa) degli Appunti per l’autobiografia di un Longaevus – per non parlare della Guida del paese di Baedeker, la quale, piuttosto che un (già quanto avvincente?) manualetto turistico-geografico, si rivela essere la Prefazione a quel manualetto mai realizzato (perché forse il paese descritto non esiste affatto). Ma ci si sgomenta covando il riso più irrefrenabile, come nella pagina che descrive la morte del primo compilatore della Guida:
«A quarantun’anni, un mese, un giorno, un’ora, tre minuti e diciotto secondi, mentre attendeva di attraversare un incrocio, ebbe una visione: la visione durò trenta secondi, ma al termine di quel tempo egli era un uomo radicalmente cambiato; purtroppo ebbe solo il tempo di cambiare cravatta, […] che gli toccò di morire. Lo specchietto retrovisore di un missile lo sfiorò, ed egli cadde nel nulla, sebbene vi sia la pia leggenda che egli sia morto per essersi visto in quello specchietto, e in quell’istante di aver conosciuto i contrassegni di un volto irreparabilmente compromesso con l’esistenza» (pp. 205-6)
La logica gioca scherzi curiosi, a chi vuol esser “logico” di professione, e quindi non resta che servirsi dei suoi inganni per “fare letteratura”. L’inganno innocente di Manganelli (e degli “angeli” dei suoi racconti) è un gioco a carte scoperte col lettore, il quale non può non cogliere la menzogna delle sue intricatissime costruzioni, raccontate ammiccando e sempre sorridendo sotto sintattici baffi. Il rifiuto radicale della “narrazione” (che pur resta viva in esempi magnifici, come nel tabucchiano La cartolina) si scioglie entro complesse quanto paradossali “investigazioni filologiche” (si veda la suggestiva Addenda), in pièce teatrali autocontraddittorie, nelle molteplici mise-en-abyme di racconti-Matrioska (Taccuino), abbandonandosi ancor più volentieri a private elucubrazioni; e lo “spazio narrativo” si riduce alla mente dei singoli personaggi (storici, mitici, improbabili) o alle riflessioni dello stesso autore, intento a trovare un modo per scrivere un libro finalmente “vendibile”, impegnato con innocente disonestà a Scrivere storie umane:
«Tu devi trovare delle storie “buone”, […] che facciano sentire migliori, ma non per molto: buone, dolci, e dolorose. I dolori altrui ci fanno buoni, ci perfezionano: i nostri, perfezionano il nostro turpiloquio» (pp. 99-100).
Parrà un poco apologetico, ma il “turpiloquio” manganelliano, nella sua vita tormentata da fantasmi interori e crisi nervose, fu proprio la letteratura.
“Ti ucciderò, mia capitale” di Giorgio Manganelli
edito da Adelphi
pp. 376 – euro 25