Parlare di racconti brevi è difficile quasi quanto scriverli. Ci si perde nei rivoli dei discorsi, nei frammenti delle cose e si fa fatica a trovare un nucleo solido attorno a cui gravitare. Specie se i racconti non sono disposti secondo un disegno più grande.
Non è il caso di “Undici solitudini” dello statunitense Richard Yates. Tutte le storie ruotano attorno all’idea di desolazione – esteriore e interiore – e ognuna declina il sentimento in maniera diversa, limitandosi l’una con l’altra nel senso e dando conto della solitudine umana come tante piccole tessere di un mosaico. Dai bambini, disillusi forse anche più degli adulti, ai vecchi, passando per tutte le categorie sociali che popolavano l’America degli anni cinquanta.
I bambini Yates li fa diventare anche un coro greco che meglio di tutti riesce a giudicare le dinamiche umane. Nella storia più bella della raccolta, Il regalo della maestra, sospesa tra lirismo e tragicità infantile, gli alunni di una classe sono messi di fronte all’evidenza che non tutte le maestre sono uguali: da una parte la signorina Snell, intransigente e seria, dall’altra la signora Cleary, simpatica e calorosa; il racconto diventa ben preso metafora per Yates del suo essere scrittore severo, rigido ma in grado di mostrare la verità della letteratura ai suoi lettori e snobbato in favore di autori alla mano privi di un messaggio da veicolare.
Lo fa con uno stile implacabile, scorrevole, preciso, in cui il periodo è lavorato con la cura piana di un artigiano, senza la barocca preziosità dell’orafo e più dalle parti dell’orologiaio: la scrittura è funzionale, ogni vite o ingranaggio è lì per muovere il meccanismo silenzioso della storia e non potrebbe altrimenti, pena la staticità dei personaggi nello spazio psicologico della pagina.
Leggendo Undici solitudini appare chiaro quanto Raymond Carver debba a Yates in termini di costruzione dei racconti, di strutturazione di una prosa così solida e ferma da reggersi in piedi come un lavoro di architettura. Yates è pulito, sa dosarsi, quando esagerare e trascinare nel vivo del racconto il lettore, mettendo a nudo un personaggio nel giro di una riga. Basta guardare come descrive, attraverso il linguaggio del corpo, l’ansia sociale del piccolo Vincent nel racconto d’apertura Il dottor Geco.
Le storie brevi sono un mezzo a sè, un raro caso di forma che detta il contenuto. Gli scrittori di storie brevi non sono romanzieri, i romanzieri non sanno necessariamente scrivere bei racconti. Accade talvolta che le due figure si sovrappongano. Richard Yates è uno dei pochi in cui questa sovrapposizione è totale. Yates maneggia la forma romanzo con la stessa abilità con cui si destreggia tra gli spazi angusti del racconto breve. Il più famoso Revolutionary Road ma anche i meno noti Una buona scuola o Easter Parade hanno in nuce la stessa potenza dei racconti presenti in questo libro. Anche i temi sono gli stessi: lo scrittore batte sui tasti che più gli sono congeniali, il senso distorto di Americana, le relazioni familiari – mai soddisfacenti e spesso distruttive – e il desiderio di fuga, a ogni età.
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“Undici solitudini” di Richard Yates
edito da Minimum Fax
pp. 257 – euro 11
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